Niente neri, siamo inglesi
Mentre nel 1894 il pallone da calcio approdava per la prima volta a San Paolo del Brasile, il Paese era attraversato da forti tensioni razziali causate dalla promulgazione della Lei Áurea. La legge firmata dalla principessa Dona Isabella aboliva finalmente la piaga della schiavitù, quella che negli ultimi trecento anni aveva cambiato per sempre la storia e il destino di tutta l’America latina. Ciononostante, la segregazione razziale, che ormai faceva parte del secolare stile di vita brasiliano e che secondo i detrattori bianchi non poteva essere cancellata dall’oggi al domani con un semplice tratto di penna, avrebbe continuato ad esistere nelle fazendas e anche in molti altri settori della società. Su tutti il nascente movimento calcistico.
Il baffuto Charles Miller, il padre del calcio brasiliano, non appena terminati gli studi a Southampton, aveva compiuto il viaggio di ritorno in nave per ricongiungersi con la sua famiglia in Brasile, dove suo padre si occupava della costruzione di chilometri e chilometri di reti ferroviarie, fiore all’occhiello della cosiddetta «politica del caffè e del latte», orchestrata da San Paolo e Minas Gerais per connettere al meglio l’appena nata República Velha.
Il giovane studente era sbarcato in Brasile portandosi dietro un pallone da calcio insieme al manuale delle regole del gioco scritte in inglese. Con l’intenzione di importare o futebol dalla terra di Albione, nel 1895 riesce ad organizzare la prima partita ufficiale nello Stato di San Paolo. Si gioca nel quartiere italiano Brás e a sfidarsi in campo ci sono la squadra della compagnia del gas e quella delle ferrovie. Ventidue uomini, per lo più inglesi oppure brasiliani di origine anglofona. Proprio come il nostro Charles Miller.
Neri e meticci non sono ammessi. L’ordine, giunto dall’alto, è quello di evitare pericolose contaminazioni che possono pericolosamente favorire l’incrocio di razze diverse (miscigenação), soprattutto adesso che la principessa Isabella ha liberato dalle catene oltre tre milioni di schiavi di origine africana. La classe dirigente bianca, quella che ha finanziato la costruzione del neorinascimentale Teatro dell’opera Amazonas, edificato nel bel mezzo della foresta amazzonica (come si vede nel film di Werner Herzog Fitzcarraldo), auspica un branqueamento, ovverosia uno sbiancamento della popolazione tramite l’espulsione, o quantomeno l’allontanamento dalla società, dei nuovi liberti con la pella nera.
Il calcio si adegua e ricorre a una stretta culturale. Innanzitutto in campo il portoghese è proibito. Chi non mastica la lingua di Shakespeare è tagliato fuori. Da regolamento, si usano termini anglofoni come field, score, goal, half, forward, penalty e foul; in più, un’apposita regola precisa che: «in caso di fallo, il giocatore colpito può accettare le scuse del colpevole, sempre e quando le sue scuse siano sincere e formulate in inglese corretto». Ciò significa che a calcio può giocarci solo chi appartiene all’élite bianca e borghese. E siccome si gioca di sabato, pur volendo, gli operai neri delle ferrovie non potrebbero partecipare, perché anche quel giorno si lavora ininterrottamente alla costruzione delle estrada de ferro.
Per il momento, neri e meticci restano a guardare ai bordi del campo. Dopodiché nascono sfide spontanee tra le ruas di San Paolo dove tra di loro provano ad imitare il nuovo gioco dei bianchi. Ci si arrangia a calciare qualsiasi cosa riesca a somigliare a un pallone, anche se la sfera è fatta di stracci e carta di giornale arrotolata. Il calcio, così, in poco tempo, è riuscito a coinvolgere tutti: dai figli degli imprenditori fino all’ultimo degli operai. Il passo successivo vede le catene calcistiche allentarsi sui terreni di gioco.
Scusa se lo chiamo Futebol
Creoli, meticci e neri iniziano gradualmente e timidamente a mescolarsi nelle squadre dopolavoristiche, ma l’impunità con cui gli inglesi colpiscono le tibie e le caviglie degli ex schiavi quando essi provano ad avvicinarsi alla palla, costringe letteralmente questi ultimi ad adattare il proprio stile di gioco. Ecco come nasce quel movimento basculante che è alla base del gioco brasiliano odierno. Una difesa dalle violenze dell’uomo bianco. Una sorta di danza riconducibile alla samba o meglio ancora alla capoeira, quell’antica arte marziale praticata dagli schiavi di origine africana, dissimulata in danza spettacolare e contraddistinta da forza, velocità, equilibrio, ritmo e assenza di contatto tra i partecipanti. Correre, schivare e fintare. Per non morire.
La storia del calcio brasiliano è dunque legata a doppio filo alla drammatica questione razziale. Il peculiare stile do futebol brasileiro, la sua eccezionalità riconosciuta a livello globale, è lo specchio fedele delle ingiustizie di carattere etnico, sociale, culturale e storico dell’intero Paese. Ignorarle significa non cogliere la vera essenza dello sport più popolare del pianeta. Ecco perché si dice che nessun popolo al mondo si sia mai espresso nella propria esistenza attraverso il calcio come il Brasile.
Storia di Carlos Alberto, ‘Pó de arroz’
In virtù dei sempre più numerosi binari ferroviari, anche il pallone adesso viaggia veloce e raggiunge facilmente i diversi angoli del Paese. Ovunque cominciano a nascere squadre con nomi inglesi e dappertutto si giocano campionati amatoriali e tornei locali. Uno dei più importanti nasce nel 1906, ed è quello organizzato a livello statale a Rio de Janeiro. Ai piedi del Pan di zucchero il calcio è arrivato nel 1902, grazie a Oscar Cox, ex studente in gita a Losanna, che appena giunto in Brasile fonda la Fluminense, squadra che a causa di divergenze sportive vedrà alcuni giocatori passare tra i rivali del Flamengo, che già esisteva come club di regata per il canottaggio.
La Fluminense rappresenta la squadra della Rio benestante, una città sfavillante e all’epoca prevalentemente borghese, molto simile a una metropoli europea, costruita a inizio secolo in perfetto stile Art Nouveau. Il Flamengo, invece, è la squadra del popolo, supportata da quei cittadini stipati ai limiti della sopravvivenza nelle favelas, le tristemente famose e popolose baraccopoli brasiliane, specchio di una drammatica e diffusa povertà.
L’inevitabile rivalità tra le due squadre, contraddistinte da due filosofie e due modi di vivere e intendere la vita in una maniera del tutto inconciliabile, racconta ancora oggi un importante tratto culturale del Brasile contemporaneo. Da oltre un secolo, ogni derby divide letteralmente in due la città. Ancora oggi, durante gli accesissimi incontri tra le due squadre, se il Flu è in vantaggio sul Fla, dalle tribune del Maracanã parte il coro di scherno: «Ela, ela, ela, silencio na favela!». Nessuno, naturalmente, ha descritto questa storica rivalità meglio del drammaturgo brasiliano Nelson Rodrigues, il quale un giorno scrisse: «in Brasile ogni cosa riconduce a Fla-Flu, tutto il resto è paesaggio».
Nel 1914 il Fluminense è in crisi di risultati. Dopo aver dominato i primi campionati Carioca, il titolo statale manca in bacheca da ormai tre anni. E in occasione della gara decisiva contro i campioni uscenti dell’America Football Club, per tentare di vincere la partita, mandano in campo l’abile mezzala mulatta Carlos Alberto. È la prima volta nel campionato brasiliano che viene dato il permesso di mettere piede in campo a un meticcio.
Negli spogliatoi, però, c’è grande preoccupazione. Cosa penserà il pubblico presente sugli spalti del nuovo Estádio das Laranjeiras? In quel momento, un dirigente della squadra ha un’idea: «perché», dice, «non cospargiamo Carlos con della farina di riso per sbiancargli un po’ la faccia?».
Per quanto bislacco, l’espediente pare avere successo. Almeno per venti minuti. Quel giorno, infatti, fa molto caldo e l’alta temperatura è sofferta anche dal pubblico presente allo stadio. Presenti pure molte dame, le quali hanno cominciato a presenziare alle partite di calcio seguendo l’ormai consolidata abitudine delle classi agiate della città. Sono vestite di tutto punto e indossano addirittura gli inseparabili guanti bianchi. Durante la partita, però, per via del nervosismo legato alle emozioni dell’incontro, e del sole che batte forte sugli spalti, sudano molto e quei guanti vengono strizzati e torti. In futuro sarà proprio quel gesto di torcere i guanti di pizzo che regalerà ai tifosi brasiliani il soprannome di «torcedores», quelli che nei momenti più caldi del match scatenano la mitica «torcida».
Se si soffre il caldo in tribuna, figuriamoci in campo. Fatto sta che a un certo punto della partita, dall’alto degli spalti cala uno strano brusìo quando qualcuno si accorge dell’imbroglio: in campo sta giocando o negro. La polvere di riso spalmata in faccia a Carlos Alberto ha infatti iniziato a colare insieme al sudore che gronda copiosamente dalla sua fronte. I tifosi avversari se ne accorgono e cominciano ad inveire e insultarlo pesantemente. Quel giorno nasce il soprannome che ancora oggi distingue il Fluminense: «Pó de arroz», polvere di riso.
Evoluzione del calcio in Brasile
Carlos Alberto, che terminerà comunque la partita indenne e diventerà una colonna portante del Fluminense, va considerato non solo il primo nero ad aver esordito nel campionato carioca, ma soprattutto come l’uomo che ha cambiato per sempre la percezione dei neri nel calcio brasiliano, spianando la strada ai futuri campioni afrodiscendenti: da Friedenreich a Leônidas, da Garrincha a Pelé, fino ad arrivare a Romario e Ronaldinho.
Ma a rompere definitivamente le catene legate alle caviglie di questi ex schiavi, ora desiderosi di giocare liberamente al futebol, arriverà prima il Bangu, la squadra nata nel 1904 in un sobborgo di Rio, poi il Vasco da Gama, la squadra che porta il nome del grande esploratore portoghese. Saranno loro a schierare stabilmente i primi neri nella storia del calcio brasiliano, come Francisco Carregal e il portiere Manuel Maia.
Campioni eccezionali dalla pelle scura che hanno contribuito a plasmare e a far sviluppare il calcio brasiliano in tutto il mondo. Simboli di una complessa mescolanza di decine e decine di popoli che hanno prodotto nuovi e diversi modi di giocare a calcio. Con l’arrivo dei neri nel calcio brasiliano, infatti, un secolo fa laggiù è cambiato addirittura lo scopo del dribbling. È diventato un divertimento, un’esibizione del proprio estro personale, della creatività di ognuno. Questo netto sopravvento della fase giocolieristica spingerà qualcuno addirittura a rimandare le partite se quel giorno non era bel tempo.
Si è evoluto così il calcio in Brasile. L’atletismo, i lanci lunghi e le bordate da una parte all’altra del campo potevano rimanere a Londra, insieme ai modelli politici e culturali che gli inglesi volevano imporre. Spazio dunque ai neri e di conseguenza ad alcune correnti indigeniste che avrebbero cominciato a rivendicare un Brasile più meticcio. La cosiddetta raza cósmica e l’ossessiva ricerca d’identità etnica della brasilianidade.
Il Brasile, dopo aver finalmente messo in campo giocatori sia bianchi sia neri, accetterà definitivamente la propria condizione di popolo meticcio. L’evoluzione del popolo brasiliano passerà proprio dall’accettazione della diversità razziale del Brasile, iniziata dapprima su un campo da calcio. Il popolo brasiliano avrebbe presto trasformato quella che era avvertita come una debolezza – la presenza di una consistente popolazione nera – nella sua forza. Gilberto Freyre, uno dei maggiori sociologi brasiliani, applicherà queste teorie al calcio: «Il nostro stile calcistico sembra contrastare con quello europeo per qualità come sorpresa, abilità, intelligenza, velocità e, allo stesso tempo, brillantezza individuale e spontaneità. I brasiliani giocano a calcio come se fosse una danza. Probabilmente risentono dell’influenza di quegli avi che hanno sangue africano o che sono prevalentemente africani per tradizione: tendono così a riportare tutto alla danza, che si tratti di lavoro o di calcio».
Fonte: GLIEROIDELCALCIO.COM
Autore: Francesco Gallo